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I ragazzi di Selvino di Livia Noris [indietro][avanti]
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  • Il lento ritorno alla normalità

    I bambini che erano approdati a Selvino avevano alle spalle degli orrori troppo grandi per le loro giovani vite, non era facile far ritornare ad avere fiducia gli uni negli altri, a cooperare e sopportare le fatiche di un lavoro.





    Il coro della colonia
    (fonte: sito http://www.ushmm.org)


    Molti si rifiutavano di eseguire i piccoli compiti che ciascuno era tenuto a eseguire, molti reagivano come Adam, ragazzo quindicenne reduce da Auschwitz, Mauthasen e Gunsen che si ribellò quando gli chiesero di pulire la sala da pranzo: "Che cosa volete da me" chiese " dopo tutto quello che ho passato.."
    D'altra parte tra i principi ai quali gli educatori cercavano di abituare i ragazzi c'erano quelli tipici della vita dei Kibbutz: il primo principio era il lavoro personale, tutti dovevano contribuire al buon funzionamento della casa, il secondo era la responsabilità reciproca, per cui ragazzi più grandi dovevano badare ai più piccoli, il terzo era il principio della proprietà comune, i ragazzi dovevano mettere in comune i loro pochi beni e, coloro che avevano soldi, dovevano versarli in una cassa comune.
    Erano principi molto difficili da interiorizzare per chi aveva subito una esperienza disumana come quella dei lager, ci volle tempo e molta pazienza prima che i bambini e i ragazzi riuscissero a capire cosa si voleva da loro.
    Per molto tempo continuarono i furti di pane: i bambini che per anni avevano patito la fame, pronti a morire per un tozzo di pane, sognavano il giorno in cui avrebbero potuto rimpinzarsi di pane soffice a volontà. Ogni tanto gli educatori trovavano sotto i materassi dei piccoli riserve di pane ammuffito.
    E il pane non era il solo oggetto dei desideri, spesso sparivano coperte che poi venivano barattate o vendute al villaggio.
    Un giorno un bambino di cinque anni rubò uno spazzolino da denti al vecchio calzolaio che lavorava nella colonia.
    Quando fu scoperto e gli chiesero perché avesse rubato, rispose "E' vecchio, tanto lo uccidono"
    Gli incubi degli orrori vissuti nei ghetti e nei campi di sterminio furono piano piano attenuati dall'impegno nelle diverse attività della casa, ma a volte tornavano e di notte si udivano pianti e urla. Le bambine spesso di infilavano le une nel letto delle altre e piangevano insieme. Ma di giorno leggevano la speranza scritta nello slogan che campeggiava in sala da pranzo: " I giovani sono il futuro del nostro popolo" e dopo i pasti e per tutta la sera riecheggiavano canti ebraici. Ogni venerdì sera era un evento festoso a cui i ragazzi si preparavano con un sentimento molto vicino alla gioia: tovaglie candide, le candele accese, le letture dei versetti della Bibbia, il canto corale delle canzoni ebraiche e della terra di Israele, tutto contribuiva a scaldare gli animi dei bambini e a rinsaldare i legami reciproci.
    Venne formato un coro di venticinque ragazzi e bambini. Il direttore, un ragazzo di sedici anni, Yannek, era sopravvissuto a una marcia della morte verso Mauthasen e alla liberazione del campo pesava trentatré chili. Quando i cancelli del campo furono aperti si era trascinato fino alla strada dove era stato raccolto da un mezzo della Croce Rossa. Dall'ospedale aveva sentito cantare la "Hatikvà", un canto ebraico che oggi è l'inno di Israele, ed era uscito dall'ospedale in pigiama.
    I soldati della Brigata Ebraica lo avevano caricato su un camion ancora in pigiama e lo avevano portato al confine con l' Italia, da dove poi era stato inviato a Selvino.
    La musica, il lavoro e il calore di nuovi affetti furono per molti l'inizio di una nuova vita di cui Selvino era solo una tappa: la meta finale era la terra lontana da cui provenivano i loro infaticabili educatori.

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    A cura della Associazione Italia Israele di Bergamo [indietro][avanti]


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