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Alice racconta: una famiglia ebrea in fuga dai nazifascisti da Vienna a Bergamo [indietro][avanti]
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  • Da Vienna all'Italia

    Comunque non si poteva più stare in Austria, cioè Germania, perché oramai l’Austria non esisteva più, nessuno si faceva delle illusioni. C’erano continuamente delle deportazioni, dei pestaggi. Non si poteva avere il negozio, non si poteva vivere, non si potevano avere degli appartamenti perché ti mandavano via e, fin dal primo momento, appena venuto Hitler,
    subito il giorno dopo c’erano delle grandi resse davanti ai consolati europei ed extra- europei, ma tutti chiudevano: non si potevano ottenere dei visti per andare in qualsiasi posto. In Svizzera non si poteva andare, in Ungheria e in Cecoslovacchia potevano tornare quelli che da là venivano; c’erano alcune possibilità di andare in Belgio, ma era comunque molto difficile emigrare in qualsiasi posto. Per andare negli Stati Uniti ci voleva un affidavit, una garanzia da là; c’era sì un certo numero di persone che gli Stati Uniti accettavano ogni anno dalle nazioni europee, ma visto che Hitler aveva già preso il potere in Germania dal trentatré, la quota per questa nazione era già stata raggiunta. La quota della Polonia per via dei pogrom era già piena da parecchi anni. Per l’Inghilterra ci voleva un lavoro là per cui era molto difficile andarsene. L’unica possibilità, stranamente, dove c’era la possibilità di andare senza visto, era l’Italia. Bastava andarci in aereo, se ci si arrivava in volo non c’era bisogno del visto, era sufficiente un passaporto valido.
    Io avevo un passaporto che scadeva il 30 giugno 1938 e papà non aveva un passaporto perché fino a quel momento non gli era servito; allora fece domanda al consolato romeno, lui aveva la cittadinanza di quel paese, dove ci consigliarono di farmi partire [subito] perché il suo [passaporto] poteva venir pronto quando il mio era già scaduto.
    Ma lui non ha mai ricevuto il passaporto romeno; ha avuto, dopo un anno e con grandi difficoltà, un passaporto tedesco per apolidi e la mamma aveva ancora un passaporto austriaco valido. Io, due giorni prima della scadenza del mio passaporto, ho preso il biglietto dell’aereo e sono partita con te che avevi, quattordici, quindici mesi e siamo arrivati in Italia.
    Gli aeroplani non erano comodi come oggi, c’erano delle specie di panchine, non c’erano cinture di sicurezza e quando l’aeroplano si muoveva si scivolava da una parte all’altra. Eravamo già sull’aeroplano e con noi c’era una famiglia composta da padre, madre e una ragazzina di circa dieci anni. A un certo momento hanno chiamato il padre e lo hanno fatto scendere per alcune verifiche. Poiché il padre non è tornato subito, la bambina ha avuto un attacco isterico.
    «Non lasciano venire il mio papà. Lo tengono là, lo tengono là!». Allora la hostess e il comandante dell’aereo sono andati da lei e le hanno detto: «Calmati. Guarda che questo apparecchio è italiano, non devi avere paura». Infatti poco dopo è ritornato il padre e siamo partiti. Prima di partire io e te siamo passati attraverso un controllo molto minuzioso, un controllo personale.
    Ho dovuto spogliarti completamente. Avevi un pannolino di stoffa, ho dovuto togliertelo e sbatterlo, ho dovuto levarti le scarpine e le calze per far vedere che non c’era nascosto niente. Dopo siamo arrivati a Venezia.




    Il negozio dopo la guerra



    Le sorelle di mia mamma erano a Milano per cui mi sono decisa ad andare a vivere là ed aspettare papà e mia madre e decidere poi con loro cosa fare in futuro.
    Il 21 settembre del 1938, non mi ricordo la data di oggi né di ieri, ma queste date mi son rimaste impresse, è uscita una legge di Mussolini secondo cui tutti gli ebrei non italiani entro sei mesi, cioè il 12 marzo del 1939, dovevano lasciare l’Italia. Naturalmente c’era un grande terrore, un grande spavento fra tutte queste persone che prima erano state lasciate entrare senza nessuna difficoltà e ora non si sapeva cosa fare. Se ne dovevano andare.
    Intanto né papà né mia madre erano riusciti a venire dall’Austria perché c’è voluto un po’ [più di tempo] perché lui ricevesse il passaporto. Poi gli italiani hanno fatto una cosa nuova: lasciavano venire in Italia solo di passaggio per cui bisognava avere un visto per qualche altra nazione per poter arrivare in Italia come “transit”; il che naturalmente era molto difficile perché nessun paese dava il visto. Ci sono stati però dei furbi che avevano trovato il modo: cioè a Milano era possibile avere il visto per andare a Tangeri, però bisognava prendere il biglietto di andata e ritorno sulla nave e allora chi aveva questo biglietto poteva avere dall’Austria il visto di transito per l’Italia.
    E allora io ho spedito questo biglietto [a tuo padre e a mia madre] per Tangeri. Naturalmente ero d’accordo con la società di viaggi che mi avrebbe ripreso il biglietto perdendoci io qualcosa. In tanto che io l’ho spedito, le disposizioni erano [state] cambiate e per quello non davano più il visto, ci voleva un biglietto di sola andata e l’unico posto in cui si poteva andare era Shanghai e si poteva andare veramente allora a Shanghai. Allora io ho preso un biglietto per mio marito e per la mamma e glie l’ho mandato e in base a questi biglietti loro hanno ricevuto il visto e sono venuti in Italia. Però anche ad andare a Shanghai c’erano già delle difficoltà, allora siamo rimasti in Italia con la paura di cosa sarebbe successo il 21 marzo. «Ci ammazzeranno tutti, ci chiameranno, [chissà] cosa ci faranno?».
    Infatti è stato proprio tipicamente italiano che non ci hanno fatto niente. Non hanno fatto niente né le autorità, né i privati. Non è successo niente, chi era qua è rimasto qua. Dopo quando è cominciata la guerra era differente. Nel settembre del trentanove è uscito un decreto per cui tutti gli ebrei dovevano andare in un certo ufficio in via Della Signoria [a Milano] e dovevano dichiarare: “Siamo ebrei, provenienti da..., abitanti in Italia, a Milano, in via... eccetera, eccetera”. E tutti, come pecore andavano là, si può dire che il novantanove per cento degli ebrei andava là a presentarsi. C’era qualcuno furbo che non si è presentato e questi non sono stati ricercati, né trovati. Hanno passato il periodo di guerra così, tranquilli.
    Nel quarantuno, quando è scoppiata la guerra, la prima cosa che hanno fatto è stato di prendere diversi ebrei, soprattutto uomini, ma anche qualche donna in casi sporadici, e, prima li hanno messi per qualche giorno a San Vittore [in carcere] e poi li hanno mandati, chi a Salerno, altri a Manfredonia e in altri posti come internati di guerra. Però praticamente erano liberi, bisognava essere a disposizione, abitare in un certo luogo, bisognava una o due volte alla settimana presentarsi in caserma.
    E così nel luglio del 1941 veniva preso anche tuo padre. Sono venuti a casa a prenderlo, hanno preso lui e delle altre persone e li hanno portati a San Vittore. Io sono andata insieme con altre donne [che avevano i loro parenti in carcere] a trovarlo. Lui è stato a San Vittore otto, dieci giorni. Era un’estate molto, molto calda e poi mi ha raccontato che di notte i secondini aprivano le porte [delle celle] per fare corrente e dicevano: «Ma voi in fin dei conti non siete dei delinquenti» e lasciavano aperte le porte e li trattavano molto bene. Da là poi sono stati smistati e papà è stato mandato a Eboli in provincia di Salerno. Ed io l’ho accompagnato al treno e dopo lui mi ha raccontato che ogni prigioniero aveva il suo “angelo custode” e lui era con uno che gli ha detto: «Tenga la mano vicino a me, facciamo finta che abbia le manette, io non gliele metto, faccia finta così».
    Infatti ha fatto così e quindi durante il viaggio gli davano tutta la libertà ed erano comprensivi e buoni. È stato a Eboli fino al marzo del quarantadue. Allora un giorno, mentre ero ancora a Milano con la nonna e con te, sono venuti a casa una mattina con un documento per riportare mia mamma in Germania, perché l’Austria non esisteva più.1
    Io ho pregato: «Ma perché? Ma...». «No, no. Lei deve essere rimpatriata, deve tornare in Germania». Allora sono andata in questura. Il capo dell’Ufficio Stranieri era, se non erro, un certo Ferrario ed era una delle massime carogne della questura. Infatti dopo la guerra lo hanno cercato i suoi parenti [con annunci sui giornali]: “Chi sa qualcosa. Chi ha notizie di lui”. Invece si capisce che i partigiani l’hanno fatto fuori subito...
    Comunque lui mi diceva: «No! Lei deve tornare in Germania, deve tornare in Germania» e mi ha dato tempo tre o quattro giorni.
    Io mi sono informata presso la Comunità Ebraica dove c’era un reparto per gli emigranti e mi hanno consigliato di andare a Roma al Ministero degli Esteri e a parlare con una certa persona e pregare di mettere la mamma in un campo di concentramento in Italia. Io sono partita subito ed ho parlato con quella persona la mattina dopo e lui mi ha detto: «Venga domani che adesso vedrò».
    Il giorno dopo sono tornata e lui mi ha detto: «Guardi, sua madre non viene rispedita in Germania, deve andare a Ferramonti, però ci deve andare anche lei con il bambino.- E dice - Suo marito viene anche lui trasferito a Ferramonti, di modo che sarete insieme tutta la famiglia».
    Mi ha dato, mi pare, otto o dieci giorni di tempo per vendere un po’ di mobilio eccetera. Ho venduto tutto e poi sono andata giù con la mamma e ho trovato là il papà.
    1 Ilona Ungar era l’unica con passaporto austriaco.
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    A cura della Associazione Italia Israele di Bergamo [indietro][avanti]


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