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Alice racconta: una famiglia ebrea in fuga dai nazifascisti da Vienna a Bergamo [indietro][avanti]
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  • In provincia di Bergamo

    [Dal campo Ferramonti] ci hanno mandato prima a Trescore [Balneario]. C’erano dei gruppi che sono stati mandati in diverse province, non ricordo più dove, ma noi siamo stati mandati con un gruppo a Trescore e ci siamo rimasti per cinque o sei giorni, ma non si trovavano gli alloggi. Allora ci hanno trasferito, tramite l’Ufficio Stranieri di Bergamo, a Clusone. Con noi c’era una famiglia di pellicciai. Erano due fratelli ed un cognato ed erano molto ricchi e si vede che ungevano anche un pochino e loro sono stati mandati a Rovetta, volevano essere mandati là [e ci sono riusciti] e avevano un laboratorio e lavoravano e le mogli venivano da Milano, portavano del materiale da lavorare e portavano via la roba pronta. Si chiamavano Divalt ed erano delle persone molto, molto buone e se potevano aiutare [lo facevano], erano anche molto amati dalla popolazione locale perché si comportavano non solo verso i loro correligionari. Ogni tanto venivano a Clusone2 a trovarci [noi e gli altri ebrei].



    Risposta del Questore alla richiesta di trasfermento a Clusone del sig. Klein, conosciuto a Ferramonti


    A Clusone c’era un bar pasticceria che allora era di un certo Mantegazza. C’erano i genitori, una figlia con il fratello sordo. Era inverno allora, inverno del quarantatré, ed era un inverno molto freddo. Gli appartamenti, le stanze delle case erano molto fredde. Allora si andava delle volte al caffè, non avevamo dei soldi da spendere, ma i proprietari erano molto buoni, comprensivi, eravamo magari in tre a prenderci un caffè, ma loro capivano che andavamo là per trovarci e scaldarci e non dicevano niente. E c’era quel figlio, che allora avrà avuto, non so, una trentina d’anni e dicevano che era sordo e per quello non faceva il militare.
    Comunque quei Mantegazza si sono comportati in modo esemplare verso di noi ebrei. Ogni tanto veniva giù il Divalt da Rovetta. Avevano preso un cavallo ed un piccolo biroccio, venivano là al caffè e pagavano per tutti e per noi era bello.
    Al caffè andavano anche, naturalmente, quelli di Clusone e tra l’altro c’era il medico, il primario dell’ospedale, c’era un notaio, c’erano insomma tre o quattro caporioni, fascistoni ma anche razzisti. E ci vedevano, ci guardavano di malocchio e si capiva che non avevano piacere [che noi fossimo là]. Loro andavano là a giocare a carte e malgrado che noi cercassimo [di non dar fastidio] e ci comportavamo bene per loro bastava che noi c’eravamo.
    E allora a un certo momento è arrivato un ordine da Bergamo, ma avevamo saputo che veniva da loro, che gli ebrei davano fastidio e dovevano essere mandati via da Clusone. E così certe persone sono state mandate a Branzi, qualcuno a Lovere, noi a Gromo e solo una o due famiglie sono rimaste a Clusone. Quelli di Rovetta non li hanno toccati perché si vede che portavano dei soldi [con la loro attività]. Naturalmente a noi dispiaceva di andare via perché a Gromo eravamo solo la nostra famiglia poi c’erano due vecchietti, lei aveva settant’anni e lui forse settantatré, settantaquattro, erano austriaci. E [c’era] un’altra coppia che aveva pressappoco la nostra età, insomma erano piuttosto giovani; dopo l’otto settembre sono scappati in Svizzera.

    Come mai siamo andati via da Clusone?
    Tutti gli internati sono stati mandati via perché qualche grande capo del paese si sentiva disturbato.

    Ma come mai noi siamo andati a Gromo?

    Non lo so. Mandavano alcune persone in Val Brembana, a Lovere, in posti diversi e noi, con mia mamma, il papà e tu, siamo stati mandati a Gromo.
    Poi c’erano marito e moglie entrambi ultrasettantenni e un altro gruppo famigliare formato da marito e moglie che venivano da Berlino ed avevano all’incirca la nostra età. A Gromo la popolazione era molto gentile e comprensiva verso di noi. C’era l’obbligo di presentarsi una volta alla settimana alla caserma dei carabinieri, ma anche il maresciallo non prendeva quest’obbligo proprio tanto sul serio, ci vedeva tutti i giorni e quindi ci lasciava abbastanza libertà. La popolazione, come ripeto, era decisamente dalla nostra parte, c’erano senz’altro anche dei fascisti, ma non abbiamo mai sentito nessuna avversità, nessuna contrarietà verso di noi. Papà girava le montagne, prendeva la legna, prendeva i funghi, girava, passeggiava e sulla strada per andare da Gromo a Valgoglio c’era una piccola frazione di tre o quattro case. Si chiama Colarete, c’era un negozio di alimentari, il proprietario era un certo signor Draganti, o Dragante, sua moglie una maestra in pensione. Erano dei fascisti, lui teneva molto alla sua fede di fascista e la propagandava sempre, però con noi era di una bontà, di una gentilezza e se poteva aiutarci lo faceva in tutti i modi. Noi vivevamo dunque là a Gromo.

    Il papà cosa faceva come lavoro?
    C’era, una decina di chilometri distante da Gromo, andando verso Clusone, c’è il paese di Ardesio. In quel paese c’erano due negozi, due mercerie. Uno era di una vedova, una signora anziana, una certa Filisetti e l’altra merceria aveva anche tessuti, era di proprietà della famiglia Zucchelli. C’era una certa rivalità, una certa concorrenza tra questi due negozianti, però tutti e due facevano di tutto per aiutarci. Allora i tessuti, il filo e tutto era tesserato, ma queste due signore avevano della roba nascosta: tessuti, stoffe eccetera e ognuno dava a papà della roba da vendere senza tessera e poiché si fidavano di lui gli davano la roba [in conto vendita] e lui la pagava quando l’aveva venduta. Quindi avevano la massima fiducia di noi.

    A Clusone papà faceva lo stesso?
    No, no. A Clusone non faceva proprio niente perché a Clusone tra la popolazione c’erano tante carogne. C’era un vigile che se avesse potuto mangiarci vivi l’avrebbe fatto. Faceva tante angherie contro la popolazione, ma naturalmente molto di più contro gli internati. Tra l’altro c’era un fornaio a Clusone all’inizio del paese, erano dei milanesi: madre, padre e figlio i quali aiutavano gli internati in tutte le maniere. I contadini gli portavano la farina e loro gli preparavano il pane e così delle volte scappava fuori un po’ di pane [in più] e lo davano di nascosto agli internati. Inoltre gli internati chiedevano e loro gli facevano il favore di dare con la tessera, invece che del pane, della farina bianca, poi noi, tanti di noi, impastavano il pane con delle patate, come si usava anche in Ungheria, e veniva del pane molto buono e lo portavamo a far cuocere in quel forno milanese.
    Ed è successo diverse volte che quel vigile, che si chiamava Doro, aspettava di nascosto gli internati che uscivano dal fornaio, cercava, guardava nella borsa cosa avevano e poi dovevano rendergli conto [di ciò che c’era] e spiegargli come mai avevano il pane e lui andava a controllare dal fornaio e quando loro gli spiegavano come erano andate le cose, lui diceva: «Per conto mio, a quella gente non bisognerebbe neanche dare le tessere annonarie». Quindi era una persona così3.
    Volevo dire un’altra cosa di Clusone.
    Quella famosa pasticceria bar Mantegazza, dove andavamo ed era gestito dai genitori, da una signorina e da un figlio di circa trent’anni che era esonerato dal servizio militare perché era sordo. Dopo la liberazione abbiamo saputo che non era vero, che era riuscito a fare finta di essere sordo ed ha passato un periodo molto brutto, di paura, perché veniva controllato, magari dietro di lui buttavano per terra qualche cosa, sparavano, per vedere la sua reazione, ma lui è sempre riuscito a fare finta fino all’ultimo di essere sordo e così non ha dovuto andare militare. Dunque tornando a [parlare] di Gromo, papà portava quelle stoffe e tessuti che aveva ai contadini nei dintorni di Gromo a Boario, a Valgoglio, alla Ripa e i contadini erano contenti e comperavano volentieri da lui.

    Andava a piedi?
    Certo, allora c’erano solo le mulattiere, anche le strade sono state fatte molto più tardi. E così si tirava avanti fino al famoso otto settembre del quarantatré. Naturalmente tutti eravamo contenti perché sembrava che la guerra fosse finita invece dopo qualche giorno si venne a sapere che Mussolini era stato liberato dal Gran Sasso dai tedeschi e che la guerra continuava. C’erano dei soldati che si ritiravano, che non andavano più a fare il militare, che erano fuggiti, li chiamavano “imboscati” e cominciavano a formarsi nella zona le prime formazioni di partigiani.
    2 Nel 1943 c’erano a Clusone circa dieci famiglie o gruppi familiari di ebrei.
    3 Precisazioni sul vigile di Clusone sono state fornite da Bepi Lanfranchi, già comandante della brigata GL “G. Camozzi”, nel corso di un’intervista raccolta a Bergamo, presso l’ISML, da R. Schwamenthal il 15 giugno 1987 e in una lettera del 17 giugno 1987, sempre indirizzata a R.S.

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    A cura della Associazione Italia Israele di Bergamo [indietro][avanti]


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