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Alice racconta: una famiglia ebrea in fuga dai nazifascisti da Vienna a Bergamo [indietro][avanti]
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  • Campo di concentramento Ferramonti

    Ferramonti era un agglomerato di capanne, di baracche che all’inizio c’erano baracche grandi per donne, delle altre per gli uomini e delle più piccole che consistevano in un appartamentino diciamo così di due vani e in mezzo c’era la cucina, [questo appartamentino] veniva dato alle famiglie. Se erano [famiglie formate da] due o tre persone avevano solo una stanza, invece se c’erano famiglie [più numerose] avevano tutte e due le stanze. Quando siamo arrivati noi quelle più grandi non c’erano più [erano già state occupate] e allora ci hanno dato una baracca molto grande e noi con delle tende l’abbiamo divisa, abbiamo ricavato una specie di camera da letto.



    Nella foto: Alice con Riccardo, il marito e la madre a Ferramonti.


    La baracca accanto alla nostra era la baracca della milizia fascista. Davanti a noi c’era un pezzettino di terra e la mia mamma aveva portato da Milano dei semi, delle sementi di fiori, di verdura e roba del genere e allora si cominciava a fare una specie di orticello. Abbiamo fatto subito amicizia con quelli della milizia, uno era di Cosenza e gli altri stavano lì vicino e quando andavano a casa loro a trovare le loro famiglie ci portavano delle altre piantine, altra semenza. Eravamo proprio in grande amicizia con loro, erano molto, molto carini e simpatici e la vita nel campo era organizzata abbastanza bene.
    C’era l’infermeria perché c’erano molti casi di malaria, il posto era brutto e c’era un maresciallo, c’era il direttore con la moglie che stavano in baracche a parte. C’era uno spaccio dove ogni tanto si poteva comperare della roba. Poi venivano clandestinamente dei contadini dai dintorni perché naturalmente gli ebrei li pagavano di più.

    Commestibili?
    Commestibili. Si facevano dei buchi per entrare perché c’era il filo spinato ed entravano portando uova, pannocchie di granoturco, frutta. Poi uno dei primi giorni tu hai compiuto il tuo terzo compleanno là a Ferramonti. E uno dei primi giorni che eravamo là tu eri fuori a giocare con le compagne quando ho visto girare una macchina. Il direttore girava intorno al campo in una macchina che sembrava una jeep, non so che macchina fosse, e vedevo che prendeva su i bambini più piccoli e con loro usciva dal campo. A me è venuto un colpo.
    «Ma cosa succede?».
    Sono corsa fuori e c’era là qualcuno e ho detto: «Ma che cosa fanno?».
    E mi hanno risposto: «Ma perché diventa matta, cosa vuole?».
    «Ma... il direttore ha portato via i bambini». «Sì, li porta a passeggio».



    Nella foto: Riccardo Schwamenthal – il primo a sinistra – con altri bambini a Ferramonti, nel giugno 1941


    Infatti dopo un’ora tutti i bambini sono tornati contenti, felici, giulivi perché lui li ha portati fuori a prendere il gelato. Ha comprato il gelato a tutti. Ed era una persona molto comprensiva, molto, molto buona. Poi c’era... gli ebrei hanno fatto... c’era uno che magari faceva il calzolaio, tutti naturalmente facevano dei lavori che non avevano mai fatto in vita loro. Uno faceva il calzolaio, uno vendeva la roba vecchia, la comprava dagli internati, faceva cambio merci con quelli della milizia e così via.

    Papà cosa faceva?
    Papà non faceva niente, stranamente.
    C’era uno che a Vienna, uno dei pochi che era un operaio, e a Vienna aggiustava i tetti e là faceva il lattoniere e si faceva dare le vecchie scatole di latta. Poi c’erano le cucine dove si faceva da mangiare tra internati per un gruppo di altri internati, si pagava qualche cosa perché lo stato [italiano] dava un piccolo sussidio e si pagava un tanto a pasto; c’era chi si faceva mangiare da solo: quelli che avevano delle piccole cucine e altri mangiavano là. E quello là, il lattoniere, si faceva dare dalle cucine le vecchie lattine di pomodoro e faceva delle cose splendide, mi rincresce di non avere più niente, faceva brocche, delle pentole, scolapasta, recipienti per le cucine. Ha fatto un samovar, anzi ne ha fatti due o tre di samovar fatti di da quella latta aggiustata e c’era qualche internato che faceva il tè, vendeva il tè, quindi non conveniva accendere il fuoco e soffiare, stare là per fare il tè, conveniva andare da questo, costava anche poco. Il lattoniere faceva anche dei candelieri e io ne avevo uno per due candele e purtroppo non so dove è andato a finire e mi rincresce tanto. Poi c’era uno che faceva l’avvocato a Vienna e andava in giro, aveva già cominciato a fare questo a Milano, a Milano andava in giro presso le famiglie degli ebrei, aveva una valigetta e diceva:
    «Avete qualche libro che non vi serve? Regalatelo a me».
    Così lui aveva creato una biblioteca ambulante, si faceva pagare qualche cosa e prestava i libri poiché noi tutti eravamo abituati a leggere molto. Gli si regalava un libro, lui faceva un prestito gratis per una settimana o due e così a Ferramonti c’era questa biblioteca ed era una cosa molto bella. E poi delle volte facevano dei concerti, degli spettacoli, c’erano dei musicisti...

    Quanti eravate in questo campo?
    Sui duemila. C’era una volta, mentre c’era una festa, uno ha fatto una molto riuscita imitazione di Hitler e sul più bello è arrivato il maresciallo. Tutti erano spaventatissimi. Invece è passato di là per sentire, per divertirsi anche lui.

    Ma i vostri carcerieri, per modo di dire, erano dei fascisti?
    Erano dei fascisti.

    Ma convinti?
    Ma credo che erano convinti perché... però erano umani. Io non credo che abbiano fatto uno direttore di un campo se questi non fosse stato veramente un fascista convinto, lo credo. Erano convinti però si vede che per loro come anche dopo per tanti fascisti, il fascismo era una cosa e il nazismo era un’altra.
    Non lo assorbivano così presto allora il razzismo perché si sono comportati... io ho sentito che all’inizio, prima ancora che arrivassimo noi, c’era stata qualche insubordinazione, c’era qualche ebreo che doveva essere stato punito per qualche cosa...

    Lì al campo?
    Al campo. Ma io personalmente non ho visto, in quegli otto, nove mesi in cui sono stata là, non ho visto niente, ma mi dicevano di prima ed era successo che per castigo avevano legato qualcuno a un albero per due, tre ore, ma sono stati bene attenti che fosse un albero ben all’ombra, che non ci fosse troppo sole, ecco...

    E papà cosa faceva?
    Ma faceva... stranamente non faceva niente... un uomo così attivo... Sì forse, un po’ parlava, aiutava un pochino quello che vendeva gli abiti usati, forse anche lui faceva un po’ il mediatore, ma faceva poco. Aveva, stranamente, lui che non ricordavo avesse avuto un amico, ha avuto là un amico che era una persona straordinaria. Era un giovane polacco che aveva studiato medicina. Si era laureato in Italia, ma aveva cominciato a studiare a Vienna, è scappato poi da Vienna.

    E non sapete dove è andato a finire?
    Sì, lui è rimasto là... perché quelli che sono rimasti là sono riusciti... a scappare... è venuto qualche tedesco però dopo un giorno o due erano scappati anche i fascisti [dal campo] e non c’era rimasto nessuno a custodire il campo e allora tutti se ne sono andati. Oramai gli americani erano vicini, sono andati dagli americani e quel Jsu Klein, si chiamava, è andato poi in Israele.

    Il papà non ha più avuto contatti con lui?
    No, non abbiamo... ci siamo interessati, abbiamo scritto, ma non abbiamo più avuto notizie di lui.

    Raccontami ancora di questo campo
    Dunque mi pare di avere detto tutto. C’erano anche delle manifestazioni culturali, si scriveva e c’era stato una volta un concorso letterario. Bisognava scrivere qualche cosa del campo e uno ha vinto il primo premio ed era una descrizione del campo, ma tanto bella e io devo avere in qualche posto una copia di questo e lo farò tradurre perché è scritto in tedesco. Rispecchia un po’ la vita [che si svolgeva là] in una breve sintesi.

    Come l’hai avuta tu?
    Perché la vendevano. L’avevano scritta a macchina e chi voleva l’acquistava.

    Ed era scritta in tedesco? E chi aveva vinto era un tedesco?
    Ma si parlava tutti in tedesco.

    Perché la maggior parte eravate tedeschi
    Era un novanta per cento. Quasi tutti erano tedeschi, c’era qualche ungherese, qualche polacco, ma diciamo, la lingua là era il tedesco. Con l’autorità si parlava in italiano. Poi, mi pare nell’agosto o settembre de quarantuno, il Papa, non ricordo quale Papa c’era allora, ha mandato un Nunzio Apostolico per interessarsi come stava la gente là in quel campo. Quel Nunzio è venuto, naturalmente le autorità l’hanno ricevuto molto bene. Lui ha fatto radunare gli internati poi ha fatto distribuire, non so, del vino, delle paste e poi anche delle medaglie ricordo. C’erano tra gli ebrei diversi battezzati, c’era anche qualche inglese. Il Papa poi è riuscito ad avere la concessione che quelli che erano dei nuclei famigliari venivano come internati liberi, venivano mandati in altri posti come confinati. Tra questi c’eravamo anche noi e abbiamo poi tentato di far venire con noi quel dottor Klein dicendo che era un nostro cugino e abbiamo fatto la richiesta, ma siccome non avevamo nessuna prova, naturalmente non l’hanno lasciato andare con noi.

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    A cura della Associazione Italia Israele di Bergamo [indietro][avanti]


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