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Alice racconta: una famiglia ebrea in fuga dai nazifascisti da Vienna a Bergamo [indietro][avanti]
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  • Prime persecuzioni

    Noi avevamo un negozio di cioccolato, caramelle e dolciumi, non una pasticceria come si usa qui, ed avevamo molti clienti perché vendevamo roba a molto buon prezzo e di buona qualità. Una delle prime cose che avevano fatto i nazisti era stata di scrivere sulle vetrine: “Negozio ebreo”, qualche volta obbligavano il proprietario stesso a scrivere: “Questo è il negozio di un ebreo” e non volevano che la gente andasse in questi negozi a fare le spese. Eravamo nel periodo prima di Pasqua e di solito si lavorava molto in quella stagione e, malgrado ci fosse la scritta sulla nostra vetrina e malgrado ci fosse qualche SA fuori dal nostro negozio, la gente entrava lo stesso e faceva la spesa. E allora quei due o tre SA che stavano fuori dal negozio si sono arrabbiati e hanno chiamato dei rinforzi e con loro sono entrati nel negozio ed hanno mandato fuori tutta la gente in malo modo e la gente aveva paura, solo una signora si è fermata, non voleva uscire assolutamente, era una signora anziana e uno delle SA le ha detto: «Ma lei come tedesca non deve comperare da un ebreo». E lei ha risposto: «Io non sono tedesca, io sono della Sudetenland» che apparteneva allora alla Cecoslovacchia. E lui le ha detto: «Guardate che manca poco che anche voi sarete sotto Hitler, sotto di noi».


    (Nella foto: il negozio di Vienna. Davanti si riconoscono una commessa, il marito di Alice, Leiser - o Leo, come veniva chiamato in Italia - e la nonna Emma Hungar che indossa una specie di spolverino).


    Una delle prime invasioni di Hitler è stata nel Sudetendeutchland dove c’erano cecoslovacchi, ma anche molti tedeschi.
    Così in negozio tenevamo solo una ragazza come commessa, prima tenevamo più personale, ma ora questa [ragazza] era sufficiente. Alcuni giorni dopo, mentre papà era fuori, sono arrivate a casa nostra due persone: uno era delle SS e l’altro in borghese con un distintivo di nazista clandestino - c’era un distintivo speciale per quelli che erano stati nazisti clandestini - sono entrati in casa e l’SS ha chiesto di papà, gli ho risposto che non era in casa, allora questi ha detto: «Vi comunico che il negozio non è più vostro, l’abbiamo requisito e adesso è di questo signore». Ho detto: «Non è possibile fare una cosa del genere». Lui ha risposto: «Noi possiamo farla, sì».
    Io non avevo il coraggio per rispondere e non sapevo cosa dire. Loro sono andati via. Appena usciti sono andata nel mio negozio; c’era la commessa con gli occhi spaventati ed alla cassa c’era seduta una signora.
    Quando sono entrata la signora mi ha salutato. «Buongiorno, che cosa posso servire?». E io ho detto: «Guardi, io sono la proprietaria del negozio». «No, no,- dice - la proprietaria sono io, con mio marito». Allora ho detto: «Non potete fare una cosa del genere, è impossibile». «No, no, guardi, lei esca di qua, il negozio è mio».
    Sono tornata a casa e quando è arrivato papà gli ho raccontato la cosa e lui ha deciso di andare al Comando. Lui era sempre molto coraggioso, io allora non avrei avuto coraggio per fare qualcosa. Successivamente mi ha raccontato che al Comando aveva trovato alcune persone che conosceva, perché il Comando era nello stesso rione in cui abitavamo e in cui c’era il negozio e questi, che erano stati nazisti clandestini, erano stati nostri clienti del negozio e ci conoscevano bene. E allora lui ha incominciato a parlare, a esporre la sua faccenda a uno dei capi che era là. Mentre questi lo ascoltava, papà si è accorto che dietro alle sue spalle c’era uno che faceva segno come se dicesse: «Picchiamolo, picchiamolo».
    Allora il capo si è ritirato insieme a qualcuno degli altri a parlare e si vede che alcuni di questi ex-clandestini hanno dato delle buone informazioni su di noi perché dopo il capo ha detto: «Va bene, allora per il momento il negozio è ancora suo, ma provvederemo... vedremo». Infatti quella donna nazista è uscita dal negozio che poi abbiamo trovato libero e abbiamo potuto tenera ancora il negozio, ma dopo poco tempo il negozio è stato assegnato: dovevamo venderlo a un nostro ex-fornitore che era [stato] un [nazista] clandestino. È stato fissato il prezzo che però non è mai stato pagato, però il negozio è passato a quella persona. Poi, finita la guerra, la [mia] mamma [Ilona Ungar] è tornata [dall’Italia all’Austria] e ha mandato via quella persona e ha venduto il negozio ad un’altra persona che poi ha realmente pagato. Volevo dire una cosa di cui prima mi ero dimenticata.
    Sì, la fisionomia degli ebrei è un po’ diversa da quella degli ariani, infatti i primi emigranti che venivano in Italia dicevano ridendo: «Sembra di essere insieme con tanti ebrei!». Perché gli italiani sembravano agli ebrei come razza. Tra i rappresentanti che venivano nel nostro negozio c’era un greco e assomigliava a un meridionale e portava il distintivo dei [nazisti] clandestini ed è stato preso e picchiato tre o quattro volte perché pensavano fosse un imbroglione. Successivamente si è procurato diversi documenti che faceva vedere immediatamente quando veniva preso per far vedere che lui era in regola.

    Perché pensi che abbiano ridato in quel momento il negozio a papà? Perché non si occupava di politica o per altre ragioni?
    Non si occupava di politica. Si è sempre comportato bene, non era un imbroglione e forse anche loro legalmente in quel momento non avevano la forza per fare ciò. Chi non si muoveva, chi lasciava fare [veniva sopraffatto], ma lui era molto energico e non potevano dire male di lui per cui in quel momento gli hanno ridato il negozio.

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    A cura della Associazione Italia Israele di Bergamo [indietro][avanti]


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